29 novembre 2013

Come cresce una storia

Questo post è dedicato a due bellissime esperienze: la lettura di un libro, che lo è sempre, e la mia prima partecipazione a un Reading Group non virtuale. Finora infatti i Gruppi di Lettura che ho frequentato sono stati unicamente spazi online in cui scambiare opinioni e impressioni; oggi, invece, nella stanzetta di una biblioteca di Berlino, questo stesso baratto di emozioni l'ho vissuto guardando i volti delle persone, e questo episodio mi ha convinto ancora di più del fatto che una storia ben scritta non finisce con la sua ultima pagina, ma si trasferisce nel cuore e nella testa di chi l'ha letta, e lì dentro si trasforma, si ingrandisce, si prepara a intraprendere nuovi percorsi e si intreccia con migliaia di altri racconti.
Il libro che abbiamo letto per l'incontro di oggi è Aprons and Silver Spoons, sottotitolo: "The Heartwarming Memoirs of a 1930s Scullery Maid" (Grembiuli e cucchiai d'argento. Le toccanti memorie di una sguattera degli anni Trenta). Non si tratta di un romanzo, ma della vera e propria rincorsa ai ricordi di Mollie Moran, una signora nata nel 1916 che a quattordici anni iniziò a lavorare come sguattera nella cucina di una casa (in realtà due: quella di campagna e quella di Londra) della nobiltà inglese. Il riferimento a Downton Abbey è naturalmente immediato, ed è l'autrice stessa a mettercelo davanti agli occhi, dichiarando che gli autori della serie sono stati precisi e attenti e hanno ricreato un mondo molto vicino alle sue memorie - ad eccezione del fatto che le gonne indossate dalle cameriere "vere" erano molto più corte di quelle fittizie....
Quella di Molly è una storia piuttosto felice e di successo. I tratti più tragici del suo racconto sono quelli in cui ci racconta del padre, gassato nelle trincee della prima guerra mondiale e da allora vittima di accessi di tosse insanguinata, e di tanti altri soldati tornati in patria ma da questa abbandonati, spesso prigionieri dello shock post-traumatico (shell shock) e per questo costretti a sopravvivere nelle miserie degli ospizi di mendicità (workhouses). Quando parla di sé, però, le parole di Molly ci regalano il ritratto di una vita contenta e fortunata: la sentiamo narrare delle gioie della sua infanzia (con il venerdì che era il momento felice per eccellenza: il mercato, il bagno, il profumo dei dolci fatti in casa), della tenerezza della madre, della splendida amicizia con Flo, degli amoretti sparsi per la strada, di un posto di lavoro massacrante, ma in cui si sentì sempre protetta (contrariamente alla norma...), delle luci estasianti di Londra, della carriera da cuoca, e infine del matrimonio con un ufficiale della RAF, che realizzò il sogno di Molly di vedere il mondo.
Mollie Moran
Il libro è pervaso da una visione positiva e ottimistica che ha l'effetto di una iniezione di fiducia. Mollie non vive in un mondo facile: lavora quindici ore al giorno, svolge quotidianamente quelle che noi chiamiamo "pulizie di primavera" (scrubble è una parola frequentissima nel libro, e ci pare quasi di sentirlo, quell'indefesso strofinare gli argenti, il legno del tavolo della cucina, il rame delle pentole, le pietre dei gradini d'ingresso), e vive nella certezza che anche un minimo errore potrebbe condurla alla rovina. Era così per le domestiche dell'epoca - deludere anche solo marginalmente lo standard morale imposto dal maggiordomo significava ritrovarsi per la strada, senza soldi, né amici, né referenze, né speranze. Eppure Mollie è una donna che gode di ogni momento della sua esistenza: l'entusiasmo e quel pizzico di trasgressione che le sono propri le fanno superare qualunque difficoltà con un largo sorriso e le garantiscono la soddisfazione dei suoi desideri. Potrebbe persino sembrare una storia stucchevole, se non fosse vera....
L'aspetto più sorprendente e arricchente di questo Gruppo di Lettura, come dicevo, sono state le strade parallele lungo le quali questo libro ci ha accompagnati. I partecipanti (inglesi, americani e tedeschi) avevano, credo, superato tutti la cinquantina e oltre, e i ricordi di Mollie Moran si sono intrecciati ai loro. Ho sentito storie di prima mano sui conflitti di classe, sulla solidarietà e la gentilezza della gente degli anni Cinquanta, sulla devozione della popolazione di allora per la Royal Family, sulle mucche che pascolavano in centro a Berlino, sull'invenzione del semaforo a Potsdamer Platz, sul fatto che in Inghilterra, quando le auto non avevano le frecce, si sporgeva il braccio dal finestrino per segnalare una svolta, sulle ricette del bread and butter pudding, sulla tradizione di portare, nelle giornate gelide, una tazza di tè al vigile urbano che dirigeva il traffico. 
La lettura ci apre delle porte che la natura ci ha sbarrato, e sbirciando oltre la soglia... si vedono meraviglie.

18 novembre 2013

Doris Lessing

Foto di Mara Barbuni
Per me il 2007 è stato l'anno di Doris Lessing. Ho letto diverse cose, ho rincorso libri che non venivano pubblicati da tempo (e che da domani, naturalmente, affolleranno le librerie), e ho conosciuto una scrittura limpida, diretta come una lama. Quello stesso anno lei vinse il Nobel per la letteratura, ed entrò a far parte del ristretto gruppo di donne che possano fregiarsi di questo titolo. Doris Lessing è morta ieri a 94 anni, lasciandoci l'eco di una voce flebile ma piena di voglia di raccontare. Come lei stessa disse: "Sono nata per scrivere, geneticamente. Voglio raccontar storie", ed è proprio la sua grande passione per la narrazione ad avermi attirato verso i suoi romanzi. Nel mondo contemporaneo non è facile incappare in uno scrittore che si senta spinto verso la narrazione. La maggior parte costruisce vignette, figurine, istantanee, la cui caratteristica principale è un andamento sincopato, fatto di frasi smozzicate e di accostamenti semantici che dovrebbero, in teoria, lasciare il lettore senza fiato. 
No, Lessing ha riempito i suoi libri di frasi armoniche ed evocative, e ha dato vita a paesaggi aperti, quasi senza orizzonte, come quelli africani, o a scene domestiche di una veridicità sconvolgente. Le sue atmosfere sono ricche, dense, pregne di movimento, di sensazioni, di dialoghi che rivelano quanto l'anima umana sia capace di precipitare in profondità sconosciute a lei stessa.
Le donne delle sue storie sono creature reali e palpabili, perchè c'è in loro un senso di irresolutezza che le conduce alla ricerca di qualcosa, quasi sempre della libertà. In Il sogno più dolce leggiamo dell'esistenza di una madre che ogni giorno lotta contro la furia autodistruttiva della sua famiglia:
"Frances rimase lì seduta, sola. In tutto il paese le donne si affaccendavano ai fornelli, irrorando di sugo milioni e milioni di tacchini, mentre il Christmas pudding fumava. Nell'aria si spandevano gli aromi sulfurei dei cavolini di Bruxelles. I tacchini erano adagiati sopra enormi distese di patate. Il malumore regnava sovrano, ma lei, Frances, era seduta lì come una regina, sola. Solo chi ha subito la pressione di adolescenti vulcanici, o di persone emotivamente dipendenti che succhiano e si nutrono e chiedono, può comprendere il puro piacere di ritrovarsi liberi, anche soltanto per un'ora." Anche la Alice di La brava terrorista è una donna in lotta, in lotta contro il caos fisico e morale della vita, e nel tentativo di rendere abitabile una casa occupata applica al mondo esterno l'ordine che tutti gli esseri umani inseguono all'interno delle pareti del loro corpo.  
Come spesso accade, sono i racconti a restituire con maggiore immediatezza la grande forza narrativa di Lessing. Sono pagine che sembrano richiamare le sue parenti lontane, Virginia Woolf e Katherine Mansfield, nel puro nitore dell'espressione e nella capacità di accendere sulle scene della finzione la luce della verità. Racconti londinesi (come negli altri casi faccio riferimento alle edizioni Feltrinelli) è una galleria fotografica di donne che a dispetto delle vaste tristezze dell'esistenza sono ancora capaci di ricordare la gioia, di vedere e di creare la bellezza, e di sorridere:
"La primavera cantava tra i platani che riempivano due finestre lungo un'unica parete, mentre sulla parete accanto i vetri mostravano un cielo intensamente azzurro. Gli alberi, carichi di foglie giovani, venivano riflessi nei due specchi rotondi disposti in corrispondenza delle finestre, come oblò sul muro bianco. Di fronte alla parete con il suo quadrato di cielo azzurro aveva appeso un grande paesaggio marino, comprato a un mercato per poche sterline; lì mare blu, cielo blu, spruzzi bianchi, bianche nuvole precipitavano eternamente gli uni sugli altri. [...] In piedi, con la mano capace appoggiata tra i riflessi dei fiori sul tavolino lucido, lei sorrideva, senza preoccuparsi di guardarsi allo specchio poiché sapeva che proprio come lei al momento di incontrare [suo marito] - con ansia ma con sicurezza - avrebbe frugato tra le aride rovine in cerca di ciò che ricordava da una quarto di secolo prima, così lui avrebbe cercato in lei ciò che era stata. E' così che si rincontrano, invecchiati, gli amanti di un tempo, come soffusi da quel sorriso segreto e irreprimibile." (da: Il pozzo)

7 novembre 2013

Jane Austen e la teoria letteraria: una riflessione


Foto di Mara Barbuni
Che le opere di Jane Austen possano essere annoverate fra i classici immortali della letteratura mondiale è ritenuto un dogma, è assodato, è fuori discussione. Quale sia la natura di un “classico letterario”, e quali definizioni potrebbero essere associate a questo termine potrebbe però essere oggetto di una lunga e articolata riflessione. È mio parere che uno dei parametri validi per giudicare l’immortalità e la grandezza di un’opera letteraria sia la possibilità di leggerla da una molteplicità di punti di vista, persino poco pertinenti l’uno con l’altro. Se, come sosteneva Calvino nella sua celeberrima osservazione, “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha dire”, si può affermare che un’opera soggetta a quante più possibili interpretazioni critiche deve essere definita un classico.
Sfogliando una qualsiasi bibliografia austeniana, come può essere quella che noi di JASIT (Jane Austen Society of Italy) abbiamo inserito nella nostra pagina “Bibliografia italiana”, o nella nostra “Study Guide”, o la sistematica bibliografia redatta annualmente dalla Jane Austen Society of North America (consultabile fra i vari articoli della loro rivista online, “Persuasion”), è facile notare – anche semplicemente con un’occhiata ai titoli dei vari contributi – che almeno i sei romanzi canonici sono stati e sono tuttora oggetto di studi critici che derivano dalle più svariate scuole di pensiero. Non tutte le opere di narrativa sono così ricche di significato da poter godere di un simile trattamento.
In questo post voglio tentare un rapido excursus che tocchi le principali manifestazioni della teoria e della critica letteraria del Novecento per dimostrare che ciascuna di loro ha, ha avuto, o potrebbe avere, la possibilità di scavare nella scrittura di Jane Austen per trovarvi infiniti spunti di pensiero e di discussione. Poiché la teoria della letteratura è un mondo gigantesco, poliedrico, persino un po' labirintico, mi farò accompagnare in questa riflessione da un manuale molto snello e intelligente, The Blackwell Guide of Literary Theory a cura di Gregory Castle. E' un libro assai utile per chi abbia bisogno di immergersi nelle sacre acque della teoria letteraria prima di un esame importante o di uno scritto impegnativo. 


Se la seconda parte di questo libro è dedicata ai grandi nomi della storia della critica (Adorno, Barthes, Benjamin, Cixous, Derrida, Eagleton, Foucault, Irigaray, Iser, Kristeva, Lyotard, Said e tanti altri), la prima metà esplora i diversi focus del pensiero novecentesco. L'attenta cronologia che precede i diversi capitoli fa risalire la stessa idea di teoria letteraria (al di là delle prime espressioni romantiche e vittoriane) agli ultimi anni del diciannovesimo secolo, e concretamente nelle opere dei grandi scrittori modernisti come Virginia Woolf, Henry James, Joseph Conrad, T.S. Eliot, W.B. Yeats.
Partiamo con i cosiddetti Cultural Studies. Raymond Williams affermò l'allontanamento da una visione della cultura elitaria e idealistica verso un'idea più ampia, che riconosca il dinamismo e la complessità della società contemporanea. All'interno di questo ambito si ritrova un'enfasi sulla cultura di massa rappresentata dai giornali, dalla televisioni e oggi dai media digitali, e in generale un'attenzione particolare sul modo in cui i lettori recepiscono l'opera letteraria. Come non vedere che negli ultimi anni Jane Austen si è offerta a questo percorso interpretativo forse più di qualsiasi altra grande voce della letteratura? Pensiamo ai film, ai serial, ai fumetti, ai blog, ai videogame, alle celebrazioni, alla sconfinata oggettistica che gira intorno alla sua figura e ai suoi personaggi. Non si deve temere smentita se si afferma che molti fan di Austen non hanno probabilmente mai finito di leggere i suoi libri. Se poi vogliamo soffermarci su quel particolare aspetto dei Cultural Studies che è l'orbita degli studi postcoloniali, ci sono passi delle opere di Jane Austen che offrono spazio a questa argomentazione. Forse più degli altri, sono Emma e Mansfield Park gli oggetti di tale interesse (del secondo ha scritto profusamente Edward Said in Culture and Imperialism): ne ho parlato più dettagliatamente in un post di JASIT intitolato "Cittadini del mondo: visioni contemporanee dei personaggi di Jane Austen". 
Emma e Mansfield Park sono stati di recente oggetto anche di diversi articoli critici concentrati sull'uso del linguaggio, e di quel delicatissimo rapporto tra parola e silenzio che fa grande un'opera letteraria, perché permette ai suoi fruitori (i lettori) una sconfinata libertà di interpretazione. La teoria decostruzionista è probabilmente l'ispiratrice di questi interventi, perchè questo movimento si è dedicato al modo in cui il linguaggio ha costituito il significato attraverso il gioco delle differenze, degli "errori" e dei vuoti di significante... pensiamo ai giochi di parole così importanti per lo sviluppo delle vicende in Emma!
Sulle teorie femministe e i gender studies il discorso è ancora molto complesso (basti pensare al rigurgito di velenoso maschilismo apparso sui commenti online alla notizia che l'immagine di Jane Austen comparirà sulla banconota da 10£!). Di certo, però, l'opera di Austen è pervasa di, se non talvolta addirittura motivata da, riferimenti allo stato di dipendenza in cui versavano le donne della sua epoca. Il matrimonio, croce e delizia delle sue storie, è pensato, aspirato e vissuto in costante rapporto con il denaro, rivelandosi così nella sua natura di contratto di vendita del corpo femminile. Il quale, di conseguenza, non sembra appartenere veramente alle donne, ma non è altro che un prezioso e fragile specchietto per le allodole più ricche, da tenere quindi particolarmente da conto. Orgoglio e pregiudizio è illuminante da questo punto di vista.
Parlando di denaro e di gerarchia sociale non possiamo non pensare alla critica marxista: secondo questa linea di pensiero, l'analisi del contesto e delle strutture storico sociali è fondamentale per comprendere un testo letterario. E quali se non i romanzi di Jane Austen offrono la visione di un mondo in cui la quotidianità è regolata dal dominio di una classe sociale sull'altra e dal valore pratico ed economico delle cose e delle persone? Non serve ricordare che gli uomini e le donne di Austen sono più o meno tutti classificati numericamente - ovvero in base al numero di zeri della loro rendita o della loro dote, rispettivamente.
Chiudiamo con l'approccio psicologico ai sei romanzi canonici. Non è difficile citare come stimolo di una simile riflessione la delicata relazione tra genitori e figli. Forse a causa del complesso rapporto con la propria madre, Austen ha creato una miriade di personaggi che il destino ha reso orfani o i cui padri e le cui madri sono talmente insulsi da far pesare la loro assenza sulla crescita emotiva dei figli. La galleria di esempi è molto affollata: i signori Bennet, il padre di Anne Elliot, il padre di Emma, per certi versi la signora Dashwood, i genitori di Fanny Price e persino il padre e la madre di Mr. Darcy (lui stesso ritiene di essere stato reso così "orgoglioso" dal tipo di educazione ricevuta durante l'infanzia) risultano totalmente inadeguati al loro ruolo di educatori. Per i genitori assenti, come le tenere madri di Anne e di Emma, rimane vivo un senso di mancanza che non può che contribuire al progresso delle loro vicissitudini. Un esempio molto chiaro dell'importanza data a questa assenza è l'incipit della miniserie Emma (BBC, 2009), che rappresentando un originale antefatto al romanzo mostra le diverse sorti di tre bambini orfani di Hartfield: la stessa Emma, che però dopo la morte della madre ne trova una vicaria nei panni di Mrs. Weston; Frank Churchill, spedito da una zia arcigna a causa dell'incapacità di suo padre di prendersi cura di lui; e Jane Fairfax, che diventerà la più sofferente, seria e matura dei tre, perchè a sostituirsi ai genitori perduti non avrà a disposizione altro che la povera Miss Bates.