24 giugno 2014

Gli innamorati di Sylvia

Gli innamorati di Sylvia, Jo March, 2014
Traduzione italiana di Mara Barbuni
Gli innamorati di Sylvia (titolo originale: Sylvia’s Lovers) fu pubblicato in tre volumi nel 1863, dopo innumerevoli ripensamenti e ininterrotte revisioni. Il romanzo è ambientato alla fine del diciottesimo secolo a Monkshaven, una città fittizia (corrispondente a Whitby) sulle coste dello Yorkshire, separata dal resto dell’Inghilterra dalle brughiere e dal mare. Il suo isolamento e il suo carattere “anfibio” (dipende per la sua ricchezza dalla caccia alle balene, ma vive dei prodotti della terra, ed è per questo che Gaskell la definisce “un microcosmo inglese”) sono caratteristiche che pervadono l’intero romanzo. Il senso di lontananza nello spazio e nel tempo gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo della storia, che appare necessariamente legata a quelle coste settentrionali battute dal vento e alle vicissitudini della guerra contro la Francia rivoluzionaria.
Gaskell menziona con molta frequenza le particolarità delle popolazioni del Nord, che a suo modo di vedere sono caratterizzate da una straordinaria forza d’animo, talvolta estremizzata in un’aggressività quasi bestiale. Questo suo approccio, che potremmo definire “storicista”, investe Gli innamorati di Sylvia, perché il libro si occupa non solo delle contingenze storiche – l’arruolamento forzoso e le sue conseguenze sulla popolazione – ma anche e soprattutto del problema antropologico della forza disordinata della passioni umane. La particolare irruenza del carattere e la sbrigliatezza di emozioni distruttive sono determinate, secondo l’autrice, proprio dall’ambientazione geografica della storia: le scogliere dello Yorkshire, così scabre, a picco su un mare spesso tempestoso, sono brulle, crude, battute dalla “rude violenza del vento che spazzava quei luoghi deserti e selvaggi sia d’estate che d’inverno”. La personalità della gente non può che essere influenzata da un simile paesaggio.
La coscrizione obbligatoria e l’arruolamento forzoso, contro cui, narra Gaskell, le genti del Nord pensavano solo a “resistere”, a differenza delle popolazioni meridionali che tentarono una più docile convivenza, furono istituiti in Gran Bretagna per rimpolpare le truppe impegnate a combattere contro gli eserciti francesi. Anche se il suolo britannico non fu mai toccato dal nemico, tuttavia quel conflitto influenzò aspramente la vita quotidiana della popolazione, perché prelevava dalle case della gente mariti, figli e padri di famiglia. Gli innamorati di Sylvia non racconta la Storia fatta dai re o dai generali, ma la storia della gente comune; e l’autrice, che per tutta la vita si prodigò nella difesa dei più sfortunati, si dedica in particolare a descrivere gli abusi di potere perpetrati dalle bande di coscrizione a danno dei marinai e dei contadini, e di come tali abusi risvegliassero l’odio delle classi sociali più umili. A un certo punto della vicenda il rapimento dei marinai da baleniera operato dalla banda di arruolamento fa scoccare la scintilla di una rivolta popolare: e la tragedia degli umili si rivela causa ed effetto del feroce scontro tra l’individuo e l’autorità, diventando dunque il motore delle disgrazie della protagonista.
La centralità del personaggio di Sylvia non è dovuta solo alle sue tragedie, ma dipende anche dal suo essere una rappresentazione dell’intero spirito di Monkshaven. Come la sua città, Sylvia è una creatura anfibia, cresciuta in una fattoria sulle colline eppure capace di percepire la vastità del mare come il proprio elemento. Il suo destino si intreccia a quello dei cacciatori di balene e a quello dei commercianti, ovvero ai due diversi gruppi protagonisti della vita economica di Monkshaven; e come molte sue concittadine ella deve sopportare il dolore dell'abbandono causato dalla guerra. La sua trasformazione da ragazzina limpida e vivace a donna infelice fa di lei la rappresentante di un femminismo particolare, anche questo in qualche modo "storico", perché reclama il diritto delle donne dello Yorkshire, fustigato dalla coscrizione obbligatoria, ad amare e odiare appassionatamente, a desiderare la vendetta, a promettere l’impossibilità del perdono.
Proprio l’incapacità di perdonare è il peccato di cui si macchia questa eroina gaskelliana. Gli innamorati di Sylvia non è solo un romanzo storico, ma anche un ritratto antropologico e una storia imbevuta di spiritualità. La religiosità è intesa qui come un percorso che inizia dal peccato e, attraverso il pentimento e l’espiazione, finalmente raggiunge la salvezza. Di questo particolare aspetto dell'esistenza umana si fa rappresentante Philip Hepburn, un personaggio fortemente moderno, che si rivela protagonista dell’intera vicenda in virtù di un tormento interiore dolorosissimo, di dubbi continui, di paure, di cadute nella disperazione, di laceranti compromessi con la sua coscienza. I suoi pensieri sono riportati in molti e lunghi passi del romanzo come uno stream of consciousness novecentesco che fanno di lui un vero anti-eroe, una figura vicina forse più delle altre alla sensibilità contemporanea. Anche per questo la sua redenzione finale ha una cruciale valenza catartica: al contrario, alla fine del libro, Sylvia, la donna piena di passione che ha accompagnato il lettore lungo tutta la storia è resa muta dal dolore e si trasforma nella protagonista di una leggenda destinata a essere rimandata ai posteri. 
Foto di Mara Barbuni (2014)
I protagonisti di questo libro non sono solo Sylvia e i suoi due innamorati. Il mare ne è infatti un personaggio predominante, una creatura quasi viva che accompagna con la sua presenza incombente tutto lo sviluppo della storia. Elizabeth Gaskell fa riferimento al mare in molte delle sue opere. In Mary Barton il marinaio Wilson racconta i suoi viaggi avventurosi nel Pacifico; Ruth incontra il suo antico amante sulla spiaggia; in Cranford il fratello di Miss Matty è richiamato da un esilio volontario in India; in Nord e sud il fratello di Margaret, Frederick Hale, è accusato di ammutinamento; e in Mogli e figlie Roger Hamley parte per una spedizione scientifica in Africa. Ma in nessuna di queste opere il mare si sente ruggire come in Gli innamorati di Sylvia. La sua esistenza è reale e tangibile in quasi ogni pagina. La popolazione avverte la sua vicinanza anche quando è nascosto dalla nebbia, e fin dall’inizio del romanzo il lettore è reso consapevole della sua dirompenza.
Il senso di ambiguità che pervade l’intero romanzo è riflesso nel ruolo duplice del mare. Il mare è sia luogo proteiforme, di creazione e di ricchezza, sia veicolo di tragedia e di distruzione; è il luogo dell’amore e della morte, della lotta perpetua tra bene e male, e dunque è elemento di eternità, sempre avvolto nel mistero. L’infinità varietà del mare è rappresentata nel libro attraverso tre diversi ambienti. Il primo è quello iniziale, il centro geografico della storia, ovvero la foce del fiume Esk che si getta nell’“Oceano tedesco” (il Mare del Nord), il secondo è quello ghiacciato, pericoloso e leggendario della Groenlandia, e il terzo è l’esotico Mar Mediterraneo.
Notiamo che ciascuno di questi tre ambienti corrisponde a uno dei personaggi principali. Le acque che lambiscono Monkshaven significano casa, patria e focolare, ossia il luogo dove Sylvia trascorre tutta la vita. I mari artici sono il teatro delle imprese di Kinraid, e il Mediterraneo è la distesa che Philip attraversa in cerca di redenzione. Il mare di Monkshaven è spesso caratterizzato da luce e vivacità, da flotte di navi ammassate nel porto e di gente sul molo, dal lavoro incessante dei marinai e dall’operosità delle loro donne. Le acque della Groenlandia sono invece deserte, piatte come un pavimento di zaffiro, interrotte solo da giganteschi iceberg che riflettono il sole e assumono sembianze bestiali anche prima che il vero mostro, la balena, faccia la sua comparsa in superficie. L’idea che evocano, di forza, energia, impavidità, contrasta con la calma quasi sonnolenta del Mediterraneo, dove i colori, i profumi e l’opulenza della vegetazione orientale obnubilano la mente del lettore e lo fanno scivolare in uno stato onirico simile a quello del regno di Kubla Khan di Coleridge.
Se è vero che gli innamorati di Sylvia sono due, Charley e Philip, è vero anche che con il mare la protagonista stringe un rapporto molto intimo e quasi enigmatico. La sua femminilità inizia a svegliarsi proprio in concomitanza con la sua esperienza del mare, poiché quando la storia comincia, la ragazza sta andando al mercato vicino al porto a comprare della stoffa per farsi un mantello nuovo, e la stoffa che vuole comprare è, simbolicamente, rosso scarlatto – una scelta che contrasta sia con la volontà della madre, sia con quella del cugino Philip, che vede Sylvia ancora come una “tenera, graziosa colomba”. È l’arrivo di Charley Kinraid a completare la formazione sensuale della ragazza, mentre Philip tenta di esercitare su di lei un’istanza protettiva di retaggio patriarcale che intende privarla del suo status di donna adulta. Spesso Sylvia sente il bisogno di fuggire dal suo salotto per cercare di nuovo la vista del mare: lì il sole e le onde le ricordano la sua identità; sola, libera, con i capelli sciolti, ella ritorna ad essere la creatura “silvana” della sua giovinezza. Quando è di fronte all’acqua, Sylvia ritrova la sua pace, perché, specialmente quando il mare è in tempesta, può intuire se stessa in armonia con quel frastuono, con quella vitalità irrefrenabile, e con quei lunghi ululati che rievocano rimpianto e lontananza.

20 giugno 2014

L'anima in un giardino

Nelle ultime due settimane sono andata a passeggio attraverso i profumi di due giardini letterari. 
In Memorie di un vecchio giardiniere di Reginald Arkell (tradotto da Franca Pece per Elliot - quanto mi piacciono i libri di questa casa editrice!) ho letto il romanzo di formazione di un ragazzo nato alla fine dell'età vittoriana, che dopo anni di apprendistato diventa il capogiardiniere di una dimora nobiliare. Tutti noi possiamo immaginare, chiudendo gli occhi, gli spazi aperti e verdissimi delle innumerevoli country houses sul suolo inglese; ma con questo libro possiamo proprio entrarci, per sentire lo scricchiolio dell'erba sotto i piedi e odorare le fragranze dei fiori e degli alberi. Il nostro giardiniere ci accompagna con i pensieri:
L'ipomea blu
E voi, siete tanto vecchi, o tanto in gamba, da ricordare con piacere e nostalgia i giardini di campagna del XIX secolo? La portulaca grandiflora sotto la finestra della cucina; il garofano dei poeti, così semplice d'aspetto; le grandi rose centifolia e il muschio che non aveva ancora perso il profumo; la reseda che fioriva nei terreni poveri e ghiaiosi sotto l'agrifoglio; il capelvenere che copriva, simile a un tappeto, i gradini grigi; e i mughetti.... [Quando vide nella serra] l'ipomea blu si controllò a fatica. Era un'orgia di colore sparso ovunque, come se qualcuno avesse strappato grandi pezzi di cielo mattutino. Era così blu... così blu da fare quasi male agli occhi. Le parve che il cuore le annegasse nella bellezza, riusciva a malapena a respirare.
Proprio in questi giorni, invece, sto finendo uno di quei libri che ti fanno pensare di volerli imparare a memoria, per tenerti in mente per sempre la loro bellezza. Si tratta di The Solitary Summer (tradotto da D. Guglielmino per Bollati Boringhieri) di Elizabeth von Arnim, che sta diventando proprio una delle mie autrici preferite.
Ogni nuova pagina richiede una sottolineatura quasi completa, tanto il racconto - in forma di diario - è pregno di analisi autobiografica dell'identità narrante e di associazioni tra l'anima di chi pensa e il piccolo mondo (il suo giardino) che la circonda. Non so quale citazione riportare qui, sono tutte troppo vive, ed esprimono sentimenti così universali che è impossibile fare una selezione. Mi limito a:
Ieri sera, dopo cena, mentre eravamo in giardino, dissi: "Voglio star sola per un'estate intera. Voglio esser pigra, cosicché la mia anima possa avere tempo di crescere. Trascorrerò i mesi in giardino, e nelle foreste. Osserverò le cose che accadono nel mio giardino, e capirò dove ho commesso degli errori. Sarò perpetuamente felice.
I gradini della veranda che scendono nel paradiso delle viole del pensiero sono circondati da tulipani gialli, e sul prato, dietro le rose, ecco due grandi aiuole di tulipani di ogni colore, che crescono su un tappeto di nontiscordardimé. 
Tulipani al Britzer Garten, Berlino.
Foto di Mara Barbuni (2014)
Quale benedizione è amare i libri! Tutti devono amare qualcosa, e io non conosco alcun oggetto d'amore che dia soddisfazioni autentiche e inesauribili come i libri e un giardino. 
Uscii alle tre e mezzo del mattino. Non c'erano nuvole, e a poco a poco, mentre io guardavo, il sole uscì rapido dalle segale come un'enorme palla rossa; il grigio del campo divenne giallo, e lunghe ombre si stesero sull'erba, mentre i fiori bagnati splendevano come diamanti. Ho avuto un'esperienza che non dimenticherò presto, qualcosa di molto prezioso, come se avessi colto il mondo di sorpresa, e mi fossi avvicinata alla vera anima delle cose.  

12 giugno 2014

Il circolo delle ingrate

In questi giorni sto leggendo un altro romanzo di Elizabeth von Arnim, Il circolo delle ingrate (tradotto da S. Gravilli per Bollati Boringhieri; titolo originale The Benefactress, 1901) e vi sto ritrovando tutte le caratteristiche che mi fanno tanto amare questa scrittrice. Innanzitutto la vivida descrizione dei luoghi, caratteristica che ha fatto del suo Un incantevole aprile uno dei miei libri preferiti in assoluto; e in secondo luogo il tono ironico che scorre come un ruscello nascosto, limpido, puro, sotto la superficie della vicenda narrata. E' la storia di Anna, una ragazza di nobili natali, ma povera, costretta a farsi mantenere dalla ricchissima cognata, borghese nel senso peggiore del termine (gretta, insensibile, tirchia e arrivista). Anna ambisce all'indipendenza, non desidera il matrimonio e mette a tacere i richiami della propria bellezza per la volontà di trovare da sola e "senza una spalla cui appoggiarsi" la propria strada e il proprio posto nel mondo: tema, questo, fra i più importanti della narrativa di von Arnim. Quando eredita dallo zio una proprietà in Pomerania, nella Germania settentrionale, la giovane decide di impiegare la propria fortuna per aiutare una dozzina di donne indigenti e senza amici a conquistare la loro autonomia: la processione che le si presenterà non si rivelerà altro che una schiera di signore arroganti, egoiste e, come suggerisce il titolo italiano, ingrate, che dimostrerà al lettore l'ingenuità di Anna e, in senso lato, le difficoltà insite persino nella realizzazione di un progetto totalmente altruista e magnanimo (nonché economicamente accessibile). I personaggi che circondano la sprovveduta Anna, che talvolta, per certe sue presunzioni, sembra ricordare Emma Woodhouse, sembrano davvero fuggiti dalla porta sul retro di un romanzo austeniano. Susie, la cognata, è un po' la Mrs. John Dashwood della situazione: priva di buon cuore, smaniosa di arraffare e sempre pronta a sottolineare la propria (presunta) generosità; suo marito e fratello di Anna, Peter Eastcourt, ricorda tanto Mr. Bennet: definito dall'autrice un "filosofo" poco propenso a vivere nella realtà, è un uomo che sembra essersi pentito della sua scelta coniugale e che ama isolarsi dal mondo (nel suo caso è la pesca, e non una biblioteca, a costituire il suo rifugio dalle grinfie della moglie). Per non parlare della ridicolaggine degli uomini e delle donne che Anna incontra non appena raggiunta la sua proprietà in Pomerania: il misogino intendente e sua moglie, l'annoiata sorella del vicino, e il parroco con la sua sposa sono campioni di comicità (per quanto si ritrovi, nelle parole del pastore, un accenno di affilato antisemitismo che anticipa cupamente la tragedia del prosieguo del secolo). Proprio la loro presenza, ingombrante e invadente, fa sorridere noi lettori quando leggiamo i pensieri di Anna al risveglio nella sua nuova casa "in uno di quei letti disadorni, con il sole del mattino che le batteva in viso; si alzò per compiere le utili incombenze quotidiane nella casa tranquilla, una casa dove non c'erano litigi, deplorevoli ambizioni, né quell'amarezza del cuore che mai dovrebbe esserci. I giorni della sua vita degna sarebbero stati giorni felici."  
Nessuna traccia di burla si ritrova invece nella rappresentazione della cornice geografica in cui la storia si svolge, come se von Arnim volesse far trionfare l'intensità della bellezza della natura, acuendo così la percezione della meschinità della società umana. I dintorni di Stralsund, la cittadina più importante della Pomerania Anteriore, sono davvero belli come l'autrice ce li descrive, e niente come le sue parole saprebbe restituirne il fascino antico, primigenio:
La piazza di Stralsund (d'inverno).
Foto di Mara Barbuni (2014)
Stralsund è una vecchia città di case a timpano, chiese antiche e caratteristiche strade dal fondo sconnesso che forma un'isola unita alla terraferma da dighe. Si mostra al meglio all'inizio della primavera, quando le verdi pianure circostanti sono disseminate di ranuncoli selvatici, le nuvolette bianche stanno sospese quasi immobili, il bestiame è fuori dalle stalle, le allodole cantano e le vele rosse e arancio sullo stretto braccio di mare che separa la città dall'isola di Ruegen punteggiano l'azzurro dell'acqua e del cielo. [...] L'aria è pregna dell'odore del mare. Il sole batte forte sulla pianura e sulla città. 


Potete leggere altri post su Elizabeth von Arnim qui:
http://ipsalegit.blogspot.de/2012/06/un-incantevole-aprile.html
http://ipsalegit.blogspot.de/2012/11/elizabeth-von-arnim.html
http://ipsalegit.blogspot.de/2013/04/la-fattoria-dei-gelsomini.html