26 febbraio 2015

Festa mobile

Non leggevo Hemingway da tantissimi anni, ma rientrare nella sua scrittura con Festa mobile è stato come fare una passeggiata nel vento. Un’esperienza limpida, corroborante. Il libro è un’autobiografia giovanile in cui lo scrittore racconta il periodo vissuto con la prima moglie a Parigi. La “società” che Hemingway frequentava allora, tra una brasserie e un cafè della Riva Sinistra della Senna, era popolata di geni letterari (Pound, Ford, Joyce, Stein, Scott Fitzgerald, cui è dedicato un capitolo eccezionale), eppure le descrizioni delle sue solitudini sono ancora più vivide, perché legate a filo doppio con il valore quasi sacro della produzione letteraria. 
«Tutta Parigi mi appartiene e io appartengo a questo quaderno e a questa matita» esordisce l’io narrante, aprendoci una finestra (e me la immagino, non so perché, affacciata su un prato spazzato dal vento) sul processo della sua creatività. «Restavo a guardare fuori, sui tetti di Parigi, e a pensare: “Non preoccuparti. Hai sempre scritto prima e scriverai adesso. Non devi far altro che scrivere una sola frase vera. Scrivi la frase più vera che conosci.” […] Lassù in quella stanza decisi che avrei scritto una storia su ogni cosa che conoscevo». Una sorta di mantra, che prodigiosamente riassume tutta la grandezza della scrittura di Hemingway: leggendo queste parole ci passano davanti agli occhi le scene di Fiesta, di Addio alle armi, di Per chi suona la campana, di Verdi colline d’Africa, dei racconti, che sprigionano proprio la potenza del conosciuto, dello sperimentato. 
In Festa mobile l’attaccamento quasi passionale a Parigi ci rivela la convinzione che un luogo è denso non solo di significati – storici o emozionali che siano – ma anche di una sua inequivocabile identità. Come scrive Corrado Augias in I segreti di Parigi, «Vedere non è capire, anzi vedere può essere quasi niente se l’atto fisico del guardare non si accompagna alla consapevolezza della possibile dimensione latente degli oggetti». Joseph Conrad diceva che con la letteratura egli voleva non solo comunicare dei fatti, ma proprio «farli vedere» ai suoi lettori («My task, which I am trying to achieve is, by the power of the written word, to make you hear, to make you feel – it is, before all, to make you see» scrive in Lord Jim): questo è anche il talento di Hemingway, che con la parola sa trasportarci materialmente nei luoghi e fra le persone. 
La Shakespeare & Co. (2010)
Ci sembra di stargli accanto quando beve il suo cafè creme, quando osserva i pescatori dopo aver finito di scrivere, quando visita la libreria di Sylvia Blythe, la Shakespeare & Co.: «A quei tempi non c’erano soldi per comprare i libri. I libri li prendevo in prestito alla biblioteca circolante della Shakespeare and Company, che era la biblioteca e libreria di Sylvia Beach al 12 di rue de l’Odéon. In una via fredda e spazzata dal vento era un posto simpatico, caldo e accogliente, con un grande camino in inverno, tavoli e scaffali di libri, libri nuovi in vetrina, e al muro fotografie di famosi scrittori sia morti che viventi». Oppure quando, insieme alla moglie, attraversa i Giardini del Luxembourg, e «gli alberi erano bellissimi senza le foglie, una volta che ti riconciliavi con loro e i venti d’inverno soffiavano sulla superficie degli stagni e le fontane zampillavano nella luce chiara.» 
E poi, come sempre, Hemingway è lo scrittore che più di tanti altri sa dare voce all’energia, alle speranze e alle difficoltà del mestiere di essere giovani: «Ma Parigi era una città molto vecchia e noi eravamo giovani, e lì non c’era niente di facile, neanche la miseria, né i soldi improvvisi, né la ragione, il torto, né il respiro di qualcuno sdraiato al tuo fianco al chiaro di luna.» E nonostante tutto, come egli scrisse in una lettera: «Se hai avuto la fortuna di vivere a Parigi da giovane, dopo, ovunque tu passi il resto della tua vita, essa ti accompagna, perché Parigi è una festa mobile».

16 febbraio 2015

Una moglie a Parigi


Complici i voli verso l’Italia e di ritorno a Berlino, ho terminato un libro di grande forza narrativa, Una moglie a Parigi (The Paris Wife) di Paula McLain, pubblicato in Italia da Neri Pozza con la traduzione di S. Fefè. La voce narrante è quella di Hadley, la prima delle quattro mogli – detta anche “la moglie parigina” (come recita il titolo originale) – dello scrittore Ernest Hemingway. 

Sono gli anni Venti, e la storia d’amore tra Hadley ed Ernest è il filo rosso che ci consente di viaggiare tra l’America del jazz e le ville della Costa Azzurra, tra la polvere infuocata delle corride di Pamplona e le voci dei caffè lungo la Senna. Il libro non è dunque un romanzo d’amore, ma si bilancia tra storia di viaggio e biografia, aprendoci una finestra sulla formazione letteraria di Hemingway e sulle sorti dei giovani della “generazione perduta” (Génération perdue o Lost Generation) che, sullo sfondo di una Parigi ebbra di fascinazioni, si riunivano per sconfiggere il disagio di vivere, per bere forte e per produrre grande letteratura. Se Hemingway è il protagonista assoluto di questo romanzo, gli altri personaggi rispondono a nomi altrettanto memorabili: da Ezra Pound a Ford Madox Ford, da John Dos Passos a Gertrude Stein fino alle straordinarie apparizioni di Scott Fitzgerald e di sua moglie Zelda. Impossibile, leggendo questo romanzo, non ripensare al film-capolavoro di Woody Allen del 2011 Midnight in Paris…. 

Gli anni di Parigi dei coniugi Hemingway furono raccontati dallo stesso autore nel memoir intitolato A Moveable Feast (Festa mobile), che sarà la mia prossima lettura. Con Una moglie a Parigi apro infatti una “serie parigina” che nelle mie intenzioni dovrebbe accompagnarmi per le prossime cinque o sei settimane: nell’elenco che ho compilato (in cui figurano alcune riletture, come I segreti di Parigi di Augias e L’eleganza del riccio di Barbery ma che vi invito a rinforzare con i vostri suggerimenti), ho appena inserito anche Julie & Julia di Julie Powell. Tra circa un mese Parigi aspetta anche me: e non ci sono compagni di viaggio migliori dei buoni libri...!


4 febbraio 2015

Vanessa e Virginia


Nelle ultime due sere sono sprofondata nella lettura di Vanessa e Virginia (Minimum Fax 2013, trad. it. di Federica Aceto) di Susan Sellers, docente di inglese a St. Andrews e curatrice di una recente edizione delle opere di Woolf. Il libro è il racconto del legame sororale tra l’autrice Virginia Woolf e la pittrice Vanessa Bell: due ragazzine imprigionate in un legame familiare oppressivo e cresciute come donne diversissime, ma accomunate dalla sensibilità che consentì loro di produrre grande arte. Voltando pagina dopo pagina, si entra dapprima nell’oscuro labirinto psicologico della famiglia Stephen, e in seguito ci si fa strada fra le luci del circolo di Bloomsbury, mentre la Storia prende il sopravvento sulla quotidianità dei personaggi ed essi si dibattono, incessantemente, nei loro tormenti intellettuali ed emotivi. 
Vanessa Bell,
Donna che legge in un interno
La voce narrante è quella di Vanessa, che si rivolge con il “tu” alla sorella quasi come in una lettera, o in un dialogo in cui l’interlocutrice rimane distaccata, silenziosa. Di Virginia ci vengono presentati i successi, ma pare che il libro non voglia insistere sull’enorme profondità del pensiero che ha caratterizzato i suoi scritti; la sua grandezza appare a sprazzi, in flash esaltanti che ci colgono di sorpresa, ma ci restituiscono moltissimo di lei. Chi conosce la sua letteratura non mancherà di riconoscere, in questa biografia un po’ speciale, scene ispirate, o tratte del tutto vividamente, dai suoi libri (la madre che organizza la cena per ospiti importanti, l’impossibile gita al faro…). La personalità di Vanessa emerge invece in maniera omogenea: tutto il libro è immerso nel colore e nelle impressioni squisitamente figurative della vita, fino a condensarsi in pagine di vere e proprie ekphrasis. Avrei preferito che il racconto si sviluppasse al tempo passato, anziché al presente, perché il ritmo sarebbe stato più avvolgente e avrebbe consentito un maggiore indugio sulla poesia delle parole; ciononostante, il libro rimane davvero pregevole.

Per finire, consiglio di leggere la voce “Vanessa Bell” nel sito dell'Enciclopedia delle Donne: 

1 febbraio 2015

Colpa d'amore

L'altra sera ho finito di leggere un altro dei tanti romanzi di Elizabeth von Arnim, autrice “scoperta” per il pubblico italiano da Bollati Boringhieri, e di cui ho spesso avuto modo di parlare. Benché il mio preferito resti sempre il “primo amore”, Un incantevole aprile, tutti i libri di von Arnim mi hanno affascinata, per un motivo o per un altro: da La fattoria dei gelsomini al Circolo delle ingrate, da Una donna indipendente a Un’estate da sola, fino a quest’ultimo Colpa d’amore (Expiation, 1929), tradotto da S. Garavelli. 
Come spesso avviene, la trama è piuttosto semplice, e si dipana senza grandi scossoni a partire da un singolo evento. In questo caso, tutto comincia con la morte di un uomo, Ernest Bott, a causa di un incidente stradale: la moglie, Milly, si ritrova praticamente diseredata e la ridda di sospetti, calunnie, e scandalizzati pettegolezzi che si scatena per questo motivo in seno alla famiglia del marito occupa l’intero romanzo. 
L’abilità della scrittrice sta in primo luogo nel dipingere con raffinata ironia proprio il vespaio suscitato dagli eventi: le cognate di Milly formano una specie di nidiata di serpi, mentre i cognati, i fratelli di Ernest, si rivelano tutti sottomessi, o per meglio dire terrorizzati, dalle donne della loro vita, e molto impegnati a reprimere i loro desideri. Von Arnim riesce a tratteggiare dei ritratti caratteriali pieni e narrativamente robusti: il lettore faticherà a dimenticare la sorella di Milly, divenuta un arcigno ramo secco a causa delle asperità della vita che si è scelta; o la cognata Nora – che compare raramente, ma brilla per la sua passionalità talvolta difficile da controllare; o ancor di più la vecchia Bott, madre del defunto, che nella sua svagatezza dimostra un saldo buon senso e una capacità di controllo che riesce a salvare tutta la famiglia. 
Il libro si divide in due parti: nella prima è Milly la protagonista, e sono i suoi pensieri, le sue aspettative, i suoi tormenti a occupare le pagine. Il trionfo della sua osservazione del mondo si raggiunge quando “Milly, ammutolita, si chiese se in fondo non fossero i buoni, coloro i quali bisognava sforzarsi di essere indulgenti e comprensivi.” È una frase che lascia molto su cui riflettere, e che invita a porsi delle domande sulla natura di quella moralità tutta esteriore che ammorbava la società di allora, esattamente come quella di oggi. Nella seconda parte, più vivida e anche divertente, assistiamo ai fuochi artificiali esplosi dalla presenza di Milly nelle diverse case dei cognati: i litigi su chi la debba ospitare, le gelosie delle mogli, i dubbi degli uomini, e sullo sfondo il serpeggiare di un sospetto che rischia di violare la sacralità del valore supremo dei Bott: la discrezione. 
Leon Wyczółkowskii,
Primavera a Goscieradz
Infine, come al solito, anche in questo libro non possono mancare quelle miniature ambientali fresche, vivaci, piene di colore e di profumi che caratterizzano la grande scrittura di von Arnim: come quando Milly cammina per Londra e attraversa “le piazze inondate di sole; […] notò i tetti delle case che tornavano a brillare contro il cielo azzurro, lo slancio di uno stormo di piccioni, le ali anch’esse lucenti, il riflesso sui capelli di una ragazza mentre strofinava la soglia di casa”; oppure “la casa sembrava deserta; vuota di tutto tranne che del sole e del vento di aprile. Porte e finestre erano spalancate per arieggiare la camera, il materasso rivoltato. Il pigiama di George […] era appeso a una sedia nel suo spogliatoio, le gambe che ondeggiavano penzoloni nella corrente. Dovunque l’odore del detersivo lottava con quello delle violacciocche che entrava dalla porta d’ingresso.” Come se quell’aria benefica ci restituisse la speranza che si possa purificare il mondo dall'ipocrisia e dalla maldicenza.

Per leggere altri post su Elizabeth von Arnim: