12 marzo 2015

Un'eredità di avorio e ambra

Sto leggendo un libro straordinario, che inseguivo da anni e a cui mi sono, finalmente, dedicata, in occasione di questa “serie parigina”. È Un’eredità di avorio e ambra di Edmund de Waal (Bollati Boringhieri, trad. it. di C. Prosperi), una storia seducente che insegue il destino di 264 statuette giapponesi (netsuke). 
Lo scrittore, ceramista di fama, racconta di aver ereditato da uno zio questo tesoro di minuscole figurine ricavate dall’avorio e dal legno e di aver deciso di ripercorrere i loro passi nel tempo e nello spazio a partire dal loro primo possessore, Charles Ephrussi: «Voglio entrare in ogni stanza in cui questo oggetto ha vissuto, percepire il volume dello spazio, scoprire quali quadri erano appesi alle pareti, qual era l’angolazione della luce che filtrava dalle finestre. […] Voglio sapere di quali vicende è stato testimone. […] La vetrinetta di Charles è una soglia». 
Charles Ephrussi
Charles Ephrussi, ricchissimo e celeberrimo collezionista e mecenate (ha ispirato la figura di Charles Swann della Ricerca del tempo perduto di Proust), amico di Degas, Manet, Renoir, Whistler e Baudry, è il protagonista della prima parte del libro. Dopo aver esplorato con delicatezza gli sfumati significati del possesso di un’opera d’arte (specie se piccola e raffinatissima come i netsuke), queste pagine danno letteralmente vita al mondo lontano di una Parigi festosa e innocente, in cui il denaro comprava eleganza, in cui le serate nelle dimore signorili erano impreziosite da velluti, sete, scrigni, lacche, ventagli, stampe, paraventi e porcellane, in cui neppure le origini ebraiche impedivano a Charles di essere amato, rispettato, cercato e onorato. L’incantesimo si spezza con l’affaire Dreyfus e l’esplosione definitiva del latente antisemitismo francese; allora Charles e i suoi netsuke devono trasferirsi a Vienna, dove comincia la seconda parte del racconto.
Ma è su Parigi che voglio concentrare l’attenzione di questo post. Oltre alle descrizioni topografiche della città («Le strade parigine trasmettono una sensazione di calma. Sono sobrie facciate in pietra, balconi dal ritmo geometrico e tigli piantati da poco») e dei lussi della casa di Charles in rue de Monceau, «ingombra delle carrozze degli aristocratici» e pervasa dal «profumo dei gigli», il libro offre bellissime ekphrasis, che hanno il potere di farci assaggiare i frutti dell’arte di quel periodo: di Gustave Caillebotte, Le Pont de l’Europe, di Monet, la Japonaise (espressione del giapponismo diffusissimo all’epoca), i Pommiers, Le Glaçons, La Bohémienne, Le Bains de la Grenouillère, La plage à Pourville, e poi, di Renoir, La déjeneur des canotiers, dove Charles Ephrussi è uno dei personaggi in secondo piano, vestito curiosamente in giacca e cilindro in una comitiva di gente rilassata, allegra, in camicia e cappello di paglia. 
Pierre A. Renoir, La déjeneur des canotiers
Questo libro, che non è un romanzo, ma una biografia visiva, è ispirato al principio – a me molto caro in letteratura – per cui gli oggetti «sembrano conservare il palpito della loro realizzazione. È questo palpito che mi incuriosisce e mi affascina. […] Se decido di prenderla in mano, questa tazzina bianca con la sua unica scalfittura vicino al manico entrerà a far parte della mia vita? Questo semplice oggetto […] potrebbe trovare posto nella mia vita di cose maneggiate, precipitare nel territorio della narrazione personale, di quell’intreccio sensuale e tortuoso fra cose e ricordi, diventare un oggetto preferito. […] Il modo in cui gli oggetti vengono tramandati è pura narrazione». Le sezioni successive a quella parigina perdono candore e il fascino della gioia, perché si ritrovano a cospetto dei mostri della Storia. Ma la sopravvivenza di quegli oggetti alle bestialità del Novecento sancisce la sacralità del ricordo e della bellezza, e sembra persino restituire un po’ di speranza.