28 febbraio 2016

Henry James al lavoro

Il 28 febbraio di cent’anni fa moriva Henry James. Uno scrittore del quale è impossibile parlare con completezza, tanti e tanto complessi sono i contributi cruciali che ha fornito allo sviluppo del romanzo, facendone definitivamente un genere letterario compiuto. Uomo schivo, raffinato, gentilissimo; narratore perfetto, drammaturgo, finissimo critico – anche di se stesso; viaggiò in Europa come un pellegrino, assorbendo nella sua mente, in costante stato di creazione, il cambiamento di un’epoca e di una società, nel delicato e sempre vivo contrasto tra vecchio e nuovo Continente. E trasformando tutto questo in una serie impressionante di opere d’arte. 
Chiunque può leggere con soddisfazione Henry James: gli ammiratori delle atmosfere gotiche trovano in Il giro di vite una gemma preziosa; gli estimatori del “mystery letterario” troveranno impossibile, a tarda sera, riporre sul comodino Il carteggio Aspern; chi si interessa di psicologia infantile si meraviglierà della profondità di Daisy Miller; chi ama la scrittura locodescrittiva rimarrà deliziato da Ore italiane, Ore inglesi e da decine e decine di contributi alla letteratura di viaggio; gli appassionati del racconto breve scopriranno in James uno tra i migliori interpreti del genere in tutta la storia della letteratura; chi ha voglia di una storia politica troverà tanta bellezza in Principessa Casamassima. Se Ritratto di signora è, per me, il libro preferito in assoluto, i romanzi “maturi” (Gli ambasciatori, La coppa d’oro e l’incommensurabile Le ali della colomba) sono difficilissimi e richiedono un’attenzione sconfinata da parte del lettore. Ogni frase, ogni parola scelta per comporla, sono un evento letterario, un fenomeno illuminante, e questo loro scavare nella psicologia umana è un processo che ci assorbe, ci esaurisce, ci lascia con un enorme, ma stimolante, senso di bewilderment, di stupefazione. 
Per celebrare la ricorrenza del centenario della sua morte ho letto un libricino imperdibile, Henry James at Work, il resoconto fatto dalla sua segretaria, Theodora Bosanquet, della loro esperienza in comune (prima edizione italiana: Henry James al lavoro, Castelvecchi Editore 2016 – non ho trovato nel loro sito il nome del traduttore). Bosanquet, nata sull’Isola di Wight, dopo il lavoro come dattilografa del grande scrittore sarebbe divenuta una suffragista e una attiva sostenitrice dei diritti civili delle donne. In questo libro ci regala gustosissimi ritratti in miniatura di James: racconta della fatalità che la portò a diventare la sua segretaria; del loro “colloquio di lavoro” in poltrona, davanti a un camino spento; del panciotto a quadri che lui indossava; delle stanze e del giardino di Lamb House, a Rye (Sussex). Ci descrive la quieta e inarginabile conversazione dello scrittore, che “parlava” i suoi capolavori mentre lei batteva i tasti di una Remington, e si interrompeva solo per cercare il vocabolo più adatto. Ci parla del rapporto di James con le sue due patrie, gli Stati Uniti e l’Inghilterra. 
Henry James al lavoro è un interessantissimo e “facile”, perché quasi biografico, approccio alla scalata davvero ardua che è la comprensione del processo creativo di un romanziere perfetto. Una lettura stilisticamente bella e dai contenuti molto significativi.


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22 febbraio 2016

Una stanza tutta per sé

Per il gruppo di lettura organizzato dalla Jane Austen Society of Italy in collaborazione con (nientemeno che) la Biblioteca Salaborsa di Bologna ho riletto Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, un saggio cruciale per la letteratura occidentale e l’iniziatore dei gender studies – ovvero l’interpretazione del testo che tiene a mente il genere di chi lo ha scritto, e, perché no, anche di chi lo legge. I punti di interesse di questa lettura sono innumerevoli, e molti sono oggi ovvi ed evidenti, benché, soprattutto in questa contemporaneità, sembrino essere tornati a suscitare scalpore per qualcuno (ad esempio, il fatto che le donne siano rappresentate come il “contraltare” o la “spalla” di un uomo è il risultato di una sovrastruttura culturale, e non di un fatto naturale!) 
In particolare, voglio concentrami qui su quattro aspetti. 
1) Appena aperto il libro mi sono ritrovata a scrutare con attenzione le primissime righe e le scelte lessicali che le contraddistinguono. Il brano è costellato di indicatori di negazione (i corsivi nelle citazioni sono miei). «Qualche osservazione su Fanny Burney […], Jane Austen […], le Brontë […], la signorina Mitford […], George Eliot […], la signora Gaskell, e basta»; «Non sarei mai riuscita a giungere ad una conclusione. Non avrei mai potuto adempiere a quello che è […] il primo compito di un conferenziere»; «le donne e il romanzo restano […] problemi insoluti»; «non si può sperare di dire la verità»; «quello che descriverò non esiste»; «dalle mie labbra scorreranno menzogne». La valenza ironica di questo paragrafo mi pare fortissima e già da sola anticipa il contenuto dell’intero saggio, perché schernisce la tradizione critica precedente (maschile) che ha affermato precisamente questi principi, ovvero, che le donne non possono fare letteratura. Il compito del seguito dello scritto di Woolf è, ovviamente, confutare questa tesi fossilizzata ed eliminare, uno a uno, gli indicatori negativi per affermare che le scrittrici furono molte di più di quelle citate qui sopra e che una donna può sperare di giungere a una conclusione al termine di una conferenza (o di un saggio), risolvendo i problemi di partenza e affermando delle verità. 
2) I riferimenti alla fisicità sparsi tra le pagine sono rappresentazioni di quanto il corpo umano (e quindi il “genere”) sia un medium fondamentale per comprendere la realtà. Questa fisicità si concretizza nella percezione sensoriale del prato di Oxbridge dal quale la parlante viene cacciata via, con la «chioma sparsa» dei salici, il riflesso tremolante del ponte sull’acqua, le finestre che mutano colore per via delle nubi spostate dal vento. Si intensifica nella gustosa rievocazione del cibo: carni di salmone, pernici e daino inondate di salsa, un dolce «tutto zucchero» e vino paglierino. Indugia nel desiderio insoddisfatto – a causa dell’esser donna – delle sigarette, dei liquori e delle poltrone profonde delle stanze maschili. Si intensifica nell’immagine fugace di Judith, l’immaginaria (ma ne siamo certi?) sorella di Shakespeare che in cerca di fortuna artistica si è ritrovata incinta, e quindi perduta, e quindi suicida. Ritorna infine nella frase, fulminea, che già si intreccia con i principi delle teorie postcoloniali: «Uno dei grandi vantaggi di esser donna è appunto il fatto di poter passare davanti a una negra bellissima senza desiderare di farne un’inglese». 
3) La materialità dello sguardo di Woolf sulla storia della letteratura si esplica nell’insistenza sul concetto del possesso di denaro. Senza denaro una donna non può produrre arte, perché non ha a disposizione uno spazio privato nel quale lavorare, si perde in infinite preoccupazioni che esulano dal prodotto artistico, deve fare figli, non mangia a sufficienza e spesso non gode della salute necessaria per affrontare la fatica di produrre arte (altro ritorno alla fisicità). «Cinquecento sterline l’anno bastano per vivere alla luce del sole»: oggigiorno non sono certo cinquecento sterline l’anno (magari!), ma resta sempre il denaro la discriminante delle nostre possibilità di fare arte o cultura e del valore di ciò che facciamo. «Il denaro conferisce dignità a ciò che è frivolo se non è pagato». 
Virginia Woolf sembra qui presagire il “male” della mia generazione, che quando studia per anni, lavora sodo e si impegna spasmodicamente per fare cultura non riceve in cambio che contratti a progetto e compensi ridicoli – oppure lo fa proprio gratis! – e contemporaneamente si sente dire dalla società che la circonda, da vicino e da lontano: “Ma quando cominci a lavorare?” (e per le donne, specie se giovani, è ancora oggi un pochino più difficile, perché la voce maschile che fa letteratura, per esempio, è sempre ritenuta a priori più preziosa, più originale, più meritevole di essere ascoltata, più “indimenticabile”). 
4) Per chiudere il cerchio, Una stanza tutta per sé offre la ragione per cui probabilmente Jane Austen è ancora così tanto amata, ovvero, spiega il principio per cui leggere i suoi romanzi è per la maggior parte di noi un incommensurabile conforto: «Forse, per natura, Jane Austen non desiderava ciò che non aveva».


17 febbraio 2016

Vita di Charlotte Brontë

Quest’anno, il prossimo 21 aprile, si celebra il bicentenario della nascita di Charlotte Brontë. È l’occasione giusta per leggere o rileggere la biografia che di lei scrisse Elizabeth Gaskell, iniziata praticamente all’indomani della notizia della morte dell’amica (di recente Castelvecchi Editore ha ripubblicato la traduzione di Simone Buffa di Castelferro, Vita di Charlotte Brontë, da tempo fuori commercio). Dal mio punto di vista il libro è la dimostrazione del fatto che Charlotte visse un’esistenza da romanzo, per certi versi anche più vivida e più interessante di quella dei suoi personaggi (che per me sono davvero difficili da amare); di certo la sublime scrittura di Gaskell ha la capacità di fare di lei un carattere squisitamente letterario, grazie a pennellate di colore e a schizzi ben delineati che riportano in vita paesaggi, volti, voci, movimenti e intensi desideri. Fu il padre di Charlotte a chiedere a Elizabeth Gaskell di scrivere questa Vita: la fama di “Currer Bell” al momento della sua morte era grandissima, ed esisteva il rischio concreto che venissero diffuse delle biografie non autorizzate. Benché impensierita dall’importanza della missione, Elizabeth accettò l’incarico e ci lavorò con ardore, con il consueto impegno, e, purtroppo per lei, anche con un pizzico di imprudenza. La pubblicazione destò entusiasmi ma anche malcontento da parte di alcune delle persone coinvolte (in primo luogo l’amante del fratello di Charlotte, Branwell) e dovette essere revisionata e in alcune parti riscritta, sotto la minaccia di spiacevoli azioni legali. 
Il Rettorato Brontë a Haworth (foto di Mara Barbuni, 2014)
Quel che conta, però, è, come dicevo, la bellezza purissima dello stile, che crea sezioni di enorme respiro e, d’altra parte, si concentra sulle perfette ed emozionanti miniature di una vita che sono così tipiche della scrittura gaskelliana. Dopo un’introduzione dedicata all’esplorazione geografica, culturale e anche folkloristica dello Yorkshire – necessaria, secondo la biografa, per comprendere fino in fondo l’animo di Charlotte – impariamo a conoscere i primordi della famiglia Brontë; ci affezioniamo a figure secondarie che il talento narrativo di Gaskell rende speciali, come la domestica Tabby e il cartolaio di Haworth; osserviamo le aule scolastiche in cui Charlotte studiò, visse e insegnò. Vediamo la scrittrice da vicino, scrutando le iridi ricche di sfumature dei suoi occhi splendenti («non vidi mai nulla di simile in altra creatura umana») e le dita lunghe e delicate. Scopriamo che raramente si lasciava andare a nutrire speranze per il futuro. Sbirciamo fra le librerie del Rettorato, ritrovandovi volumi di Southey, di Wordsworth, di Walter Scott, di Ruskin. Leggiamo decine e decine di sue lettere. Ci fa stringere il cuore il pensiero di cosa Elizabeth scoprì quando si recò a Bruxelles a conoscere Monsieur Heger, il suo professore. Tremiamo nell’assistere alle crisi di astinenza di Branwell, ormai dipendente dall’alcol e dall’oppio. Ma, soprattutto, ho trovato commovente il ritratto di Emily, la geniale Emily Brontë, che si occupava delle faccende domestiche e impastava il pane leggendo, e non sapeva stare lontano dalla sua brughiera: «ai suoi occhi, negli angoli più cupi della landa sbocciavano i più vividi fiori. […] Nella solitudine trovava le più rare delizie; e certamente, non ultima, anzi, la più amata, la libertà. La libertà era l’aria che Emily respirava, senza di essa moriva» (sono parole di una lettera di Charlotte). Una scrittrice che la storia ha perso troppo presto. 
Non manca, naturalmente, “il racconto dei racconti”, ovvero la descrizione delle tre sorelle intente a scrivere e a scambiarsi impressioni critiche fra le quattro mura del parlour, e delle vicissitudini editoriali delle loro opere; di Charlotte, in particolare, Gaskell scrive: «la scelta delle parole è lo specchio del suo pensiero, nessun altro termine, per quanti sinonimi abbia, potrebbe essere sostituito a quello scelto da lei. […] Scriveva su quei pezzi di carta con una grafia minuta […] nella penombra del crepuscolo, vicino al caminetto acceso».

14 febbraio 2016

In viaggio con Edith Wharton

Foto di Mara Barbuni, 2016
I miei libri sono tornati al loro posto sugli scaffali… posso dire che il trasloco è concluso! In quest’angolo di Svizzera in cui sono venuta a vivere si parla francese, e la Francia stessa si trova a pochissimi chilometri da qui, appena dietro le colline che vedo dalla mia finestra. Ispirata dal panorama e da una certa atmosfera di movimento, di europeità e di viaggio, ho letto Viaggio in Francia di Edith Wharton (Edizioni Franco Muzzio, trad. it. di G. Bernardi), un prezioso regalo ricevuto tempo fa da una persona che ha compreso la mia ricerca e la mia passione per il viaggiare letterario. 
Se ogni lettura è un viaggio, un libro di viaggio è il culmine della lettura. Viaggio in Francia (1908), in particolare, unisce alla descrizione degli itinerari – uno per ogni capitolo, da Boulogne alla Provenza – e alla rievocazione dei paesaggi delle indimenticabili riflessioni sulla natura stessa del viaggiare. È il racconto di due escursioni che la scrittrice “conseguì” (come diceva lei stessa) in automobile tra il marzo del 1906 e la primavera del 1907, accompagnata dal marito, dal fratello e dal carissimo amico Henry James. Immaginatevi le conversazioni…. 
Si spostavano a bordo di una Panhard, ed Edith era così innamorata della velocità e delle infinite possibilità offerte dal viaggio in automobile da esaltarne addirittura la “romanticità”: «L’automobile ha ridato qualità romantica al viaggio. Liberandoci da tutte le costrizioni della ferrovia […] ci ha restituito la meraviglia, l’avventura e il senso del nuovo». Ed è proprio di meraviglia che ci saziamo nel corso di questi percorsi tra le pagine, che ci fanno assaporare un inequivocabile senso di Francia: 
«Ci inoltrammo in silenziose strade secondarie e passammo attraverso qualche villaggio sconosciuto, e accanto a manieri di pietra grigia che occhieggiavano tra alti cespugli di lillà e di maggiociondolo, e lungo ombrosi affluenti».
«Tornammo di nuovo nel normale paesaggio della Senna, con le ridenti cittadine tutte vicine alle sponde, con i lillà e i glicini che traboccano dagli alti muri di recinzione, con i luminosi piccoli caffè sulle assolate piazze di paese, e le flottiglie di barche».
«Quando siete in automobile, [i villaggi] vi mandano suadenti richiami, vi inducono a fermare la vostra corsa, complicando poi le impressioni che già avevate, sconcertandovi perché vedete che avevate perso in parte il senso della gran ricchezza della Francia e dovete rinnovarlo». 
Chartres, Rouen, Avignone, i castelli della Loira… sono solo alcune delle destinazioni verso le quali Edith spinge la sua automobile, godendo della bellezza del paesaggio, dell’architettura, della cultura locale e del mistero delle conformazioni geologiche. 
Come scrive Mary S. Schriber nell’Introduzione, «il viaggio viene a costituire il ponte tra la vita americana e l’espatrio a Parigi, tra l’insoddisfazione estetica e intellettuale e la capacità di individuare e combattere quella insoddisfazione, tra il desiderio di scrivere e il materiale culturale per realizzare quel desiderio». 
Insofferente alle costrizioni sociali americane (di cui dà un pregevole ritratto in L’età dell’innocenza), Edith finì per trasferirsi stabilmente in Francia, onorando in tutti i modi possibili la sua terra d’elezione: acquistò case nel centro e nella periferia di Parigi e in Riviera, aprì un salon letterario, contribuì allo sforzo bellico recandosi anche nei pressi del fronte per scriverne delle cronache giornalistiche (Dai fronti opposti. Diari di guerra) e per questo fu insignita della Legion d’Onore. 


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